Convivio – Trattato IV – Capitolo II

         Nel principio de la impresa esposizione, per meglio dare a intendere la sentenza de la proposta canzone, conviensi quella partire prima in due parti, che ne la prima parte proemialmente si parla, ne la seconda si seguita lo trattato; e comincia la seconda parte nel cominciamento del secondo verso, dove dice: Tale imperò che gentilezza volse. La prima parte ancora in tre membra si può comprendere: nel primo si dice perché da lo parlare usato mi parto; nel secondo dico quello che è di mia intenzione a trattare; nel terzo domando aiutorio a quella cosa che più aiutare mi può, cioè a la veritade. Lo secondo membro comincia: E poi che tempo mi par d'aspettare. Lo terzo comincia: E, cominciando, chiamo quel signore.
         Dico adunque che "a me conviene lasciare le dolci rime d'amore le quali solieno cercare li miei pensieri"; e la cagione assegno, perché dico che ciò non è per intendimento di più non rimare d'amore, ma però che ne la donna mia nuovi sembianti sono appariti li quali m'hanno tolto materia di dire al presente d'amore. Ov'è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna essere "disdegnosi e fieri" se non secondo l'apparenza; sì come nel decimo capitolo del precedente trattato si può vedere come altra volta dico che l'apparenza de la veritade si discordava. E come ciò può essere, che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia oscura, quivi sufficientemente vedere si può.
         Appresso, quando dico: E poi che tempo mi par d'aspettare, dico, sì come detto è, questo che trattare intendo. E qui non è da trapassare con piede secco ciò che si dice in "tempo aspettare", imperò che potentissima cagione è de la mia mossa; ma da vedere è come ragionevolemente quel tempo in tutte le nostre operazioni si dee attendere, e massimamente nel parlare. Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è "numero di movimento, secondo prima e poi"; e "numero di movimento celestiale", lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione. Ché altrimenti è disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in sé la informazione de l'erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un'altra; e così la nostra mente in quanto ella è fondata sopra la complessione del corpo, che a seguitare la circulazione del cielo altrimenti è disposto un tempo e altrimenti un altro. Per che le parole, che sono quasi seme d'operazione, si deono molto discretamente sostenere e lasciare, sì perché bene siano ricevute e fruttifere vegnano, sì perché da la loro parte non sia difetto di sterilitade. E però lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come per colui che dee udire: ché se 'l parladore è mal disposto, più volte sono le sue parole dannose; e se l'uditore è mal disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E però Salomone dice ne lo Ecclesiaste: "Tempo è da parlare, e tempo è da tacere". Per che io sentendo in me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel precedente capitolo, a parlare d'Amore, parve a me che fosse d'aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d'ogni desiderio, e appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d'aspettare. Onde dice santo Iacopo apostolo ne la sua Pistola: "Ecco lo agricola aspetta lo prezioso frutto de la terra, pazientemente sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo serotino". E tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo.
         Dico: "poi che da aspettare mi pare, diporroe", cioè lascierò stare, "lo mio stilo", cioè modo, "soave" che d'Amore parlando hoe tenuto; e dico di dicere di quello "valore" per lo quale uomo è gentile veracemente. E avvegna che "valore" intendere si possa per più modi, qui si prende "valore" quasi potenza di natura, o vero bontade da quella data, sì come di sotto si vedrà. E prometto di trattare di questa materia con rima aspr'e sottile. Per che sapere si conviene che "rima" si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: strettamente, s'intende pur per quella concordanza che ne l'ultima e penultima sillaba far si suole; quando largamente, s'intende per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade, e così qui in questo proemio prendere e intendere si vuole. E però dice aspra quanto al suono de lo dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice sottile quanto a la sentenza de le parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono. E soggiungo: Riprovando 'l giudicio falso e vile, ove si promette ancora di riprovare lo giudicio de la gente piena d'errore; falso, cioè rimosso da la veritade, e vile, cioè da viltà d'animo affermato e fortificato. Ed è da guardare a ciò, che in questo proemio prima si promette di trattare lo vero, e poi di riprovare lo falso, e nel trattato si fa l'opposito; ché prima si ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire a la promessione. Però è da sapere che tutto che a l'uno e a l'altro s'intenda, al trattare lo vero s'intende principalmente; a riprovare lo falso s'intende in tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire. E qui prima si promette lo trattare del vero, sì come principale intento, lo quale a l'anima de li auditori porta desiderio d'udire: nel trattato prima si ripruova lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade poi più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro de l'umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo con li avversari de la veritade e poi, quelli convinti, la veritade mostroe.
         Ultimamente, quando dico: E, cominciando, chiamo quel signore, chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello signore che ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora, e bene è signore, ché a lei disposata l'anima è donna, e altrimenti è serva fuori d'ogni libertade. E dice: Per ch'ella di se stessa s'innamora, però che essa filosofia, che è, sì come detto è nel precedente trattato, amoroso uso di sapienza, se medesima riguarda, quando apparisce la bellezza de li occhi suoi a lei; che altro non è a dire, se non che l'anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se stessa innamorando per la bellezza del suo primo guardare. E così termina ciò che proemialmente per tre membri porta lo testo del presente trattato.

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