Convivio – Trattato IV – Capitolo XIII

         A la questione rispondendo, dico che propriamente crescere lo desiderio de la scienza dire non si può, avvegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propriamente cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza non è sempre uno, ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che, propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Che se io desidero di sapere li principii de le cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l'avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a la quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente de la ricchezza è propriamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione. E se l'avversario vuol dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii de le cose naturali e altro di sapere che elli sono, così altro desiderio è quello de le cento marche e altro è quello de le mille, rispondo che non è vero; che 'l cento sì è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta linea, su per la quale si procede per uno moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii de le cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l'uno de l'altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto de l'una, succede lo moto de l'altra. E così appare che, dal desiderio de la scienza, la scienza non è da dire imperfetta, sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione ponea; ché nel desiderare de la scienza successivamente finiscono li desiderii e viensi a perfezione, e in quello de la ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo.
         Ben puote ancora calunniare l'avversario dicendo che, avvegna che molti desiderii si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai non si viene a l'ultimo: che è quasi simile a la 'mperfezione di quello che non si termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde, che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si viene a l'ultimo: ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello de la scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. E chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende da lui. E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta parlando, che "l'uomo si dee traere a le divine cose quanto può"; in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo de l'Etica dice che "'l disciplinato chiede di sapere certezza ne le cose, secondo che ne la loro natura di certezza si riceva"; in che mostra che non solamente da la parte de l'uomo desiderante, ma deesi fine attendere da la parte de lo scibile desiderato. E però Paulo dice: "Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura". Sì che, per qualunque modo lo desiderare de la scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene. E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non perde, come le maladette ricchezze.
         Le quali come ne la loro possessione siano dannose, brievemente è da mostrare, che è la terza nota de la loro imperfezione. Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due ragioni: l'una, che è cagione di male; l'altra, che è privazione di bene. Cagione è di male, ché fa, pur vegliando, lo possessore timido e odioso. Quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non pur di perdere l'avere ma la persona per l'avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che 'l vento fa menare, li fa tremare, quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtade cantando e sollazzando fanno loro cammino più brieve. E però dice lo Savio: "Se voto camminatore entrasse ne lo cammino, dinanzi a li ladroni canterebbe". E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: "Oh sicura facultà de la povera vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze de li Iddei! A quali tempii o a quali muri poteo questo avvenire, cioè non temere con alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?" E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. E quanto odio è quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione! Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio a la morte del padre intende: e di questo grandissime e manifestissime esperienze possono avere li Latini, e da la parte di Po e da la parte di Tevero! E però Boezio nel secondo de la sua Consolazione dice: "Per certo l'avarizia fa li uomini odiosi".
         Anche è privazione di bene la loro possessione. Ché, possedendo quelle, larghezza non si fa, che è vertude ne la quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e amati; che non può essere possedendo quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: "Allora è buona la pecunia, quando, transmutata ne li altri per uso di larghezza, più non si possiede". Per che assai è manifesto la loro viltade per tutte le sue note. E però l'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza quelle mai non ama, e, non amandole, non si unisce ad esse, ma quelle sempre di lungi da sé essere vuole, se non in quanto ad alcuno necessario servigio sono ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo perfetto con lo imperfetto non si può congiugnere; onde vedemo che la torta linea con la diritta non si congiunge mai, e se alcuno congiungimento v'è, non è da linea a linea, ma da punto a punto. E però seguita che l'animo che è diritto, cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza, per loro perdita non si disface; sì come lo testo pone nel fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo testo che elle siano fiume corrente di lungi da la diritta torre de la ragione, o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non possono torre la nobilitade a chi l'ha. E per questo modo disputasi e ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.

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